In questa nuova puntata della nostra rubrica “Adattarsi, Sopravvivere, diventare Invulnerabili (conoscendo i propri limiti)“, spieghiamo: cos’è la Business Continuity, quali le sue caratteristiche e perché integrarla nella propria azienda.
Parafrasando John Rampton, il primo ostacolo all’adozione di un Piano di Continuità Operativa da parte delle aziende risiede in un fatto molto semplice: spesso si ignora la ragione per la quale se ne dovrebbe adottare uno o, addirittura, si è completamente all’oscuro di cosa si tratti.
È perfettamente comprensibile che l’aggiunta di un ulteriore strato di complessità sia visto con diffidenza, in special modo quando il valore di tutta questa operazione non è immediatamente percepibile.
Facciamo un piccolo salto logico. Esistono almeno due punti fermi, difficilmente confutabili.
Primo: salvo che si lavori per progetto oppure con investimenti che -deliberatamente- giungano a termine nel giro di un determinato numero di mesi o anni, normalmente una compagnia nasce con l’obiettivo di prosperare nel lungo termine, di cresce sempre più. La volontà implicita di un’impresa è di essere sempre più profittevole, quindi di continuare ad operare per un indefinito, e preferibilmente ampio, lasso di tempo.
Secondo: per un fattore meramente statistico, presto o tardi, succederà qualcosa che comprometterà gli affari. E raramente i problemi sono accompagnati da un campanello d’allarme. E quand’anche si sia così fortunati da esserne al corrente in anticipo, è ragionevole supporre che molteplici cose possano andare storte.
Ogni incidente fa storia a sé ed è, per definizione, fonte di imprevisti…
L’antifona dovrebbe esser chiara a questo punto: stiamo parlando di due estremi inconciliabili ed è proprio in questo scenario apparentemente irrisolvibile che entra in gioco la Business Continuity (BC) o Continuità Operativa (CO).
La tendenza naturale è quella di prediligere gli eventi positivi (il guadagno), rispetto a quelli negativi (la perdita) e ad associare automaticamente al rischio, e qualsiasi cosa che lo contempli, l’idea del fallimento. Per evolversi, bisogna partire invece dall’accettazione che l’elemento di rischio esista: bisogna individuarlo, valutarlo, capire quale sia il suo potenziale impatto. Quindi decidere quale sia la soglia che determini se un evento è ragionevolmente, tecnicamente ed economicamente gestibile.
Quanto tempo può passare prima che un servizio critico inaccessibile crei danni a cose e persone o violi clausole contrattuali o perfino norme di legge, fino al punto di mettere a repentaglio l’esistenza stessa di un’azienda? Il modo più efficiente e affidabile per dare una risposta concreta a questa domanda sta nella Business Continuity.
Ma andiamo per ordine e spieghiamo che cos’è.
La normativa di riferimento ISO 22301:2012 ne dà questa definizione:
“La capacità di un’organizzazione di continuare ad erogare prodotti o servizi a livelli predefiniti accettabili a seguito di un incidente.”
Si tratta, in altre parole, di un programma omnicomprensivo che nasce da un approccio collaborativo, teso ad individuare le strategie più adatte a garantire il corretto e continuo funzionamento delle risorse vitali di una società o, nei casi più gravi, a ripristinarne il funzionamento ad esempio a seguito di disastri, minacce o vulnerabilità.
Il suo principio fondamentale poggia su un processo che non si arresta mai: una volta che negli uffici e nei reparti è stato “inoculato il germe” della resilienza (parola che ricorrerà spesso nella rubrica), si innesca un circolo virtuoso. Grazie al quale, aggiunto un nuovo tassello migliorativo, da lì si riparte, elevando di volta in volta il livello qualitativo precedentemente raggiunto.
Il pilastro fondamentale della BC è il Business Continuity Plan (BCP), o Piano di Continuità Operativa (PCO).
Sempre dalla normativa iso:
“È l’insieme di procedure documentate che guidano le organizzazioni nel rispondere, recuperare, riprendere e ripristinare a un livello predefinito le attività a seguito di un’interruzione.”
Concretamente, si tratta di un documento che delinea procedure e istruzioni che l’organizzazione colpita deve seguire pedissequamente a danno avvenuto. Al suo interno sono trattate le soluzioni passo a passo da applicare per un’ampia gamma di problematiche, riguardanti i più diversi settori: dai processi produttivi, passando per le attrezzature, fino alle risorse umane, i fornitori, e via di questo passo.
Come sarà ormai chiaro, si tratta di una vera e propria pianificazione strategica, tesa a:
garantire l’operatività grazie alla definizione di procedure alternative
guidare la fase decisionale nel momento della crisi
ridurre al minimo le interruzioni dei processi critici
ripristinare le condizioni operative normali in maniera economicamente sostenibile
assicurare che il processo di ripristino sia efficiente (in termini funzionali e economici)
Per usare una similitudine, si può tranquillamente affermare che per un’azienda il BCP rappresenti un faro durante una tempesta. Quando l’imprevisto si palesa, difficilmente le persone riescono a pensare in maniera logica e coerente, men che meno ad orchestrare una strategia di ampio respiro. Avere un piano B per ogni evenienza serve esattamente a questo, ossia a fornire un punto di riferimento in una situazione di caos. Ma quali sono le caratteristiche che un buon piano deve per forza avere?
Deve essere accurato nelle informazioni che contiene.Dettagli
Tanto nelle procedure, quanto nelle informazioni riguardanti le figure o gli enti responsabili da contattare in caso di bisogno. In tal senso è indispensabile che si parta da una lucida visione su come il ripristino andrà effettuato in caso di necessità, non lasciando nulla al caso.
Deve essere aggiornato, assicurandosi che i suoi contenuti rispecchino lo stato di fatto vigente.Dettagli
Lo si può paragonare ad una Polaroid dell’azienda, il piano è “fedele” solo fino a quando le caratteristiche salienti di ciò che vi è rappresentato non mutano.
Deve essere comprensibile da chiunque, a prescindere dal ruolo.Dettagli
Un piano di continuità operativa non sarà utile se nessuno è in grado di applicarlo, quando necessario.
Deve essere adattabile: un incidente è, per definizione, imprevedibile.Dettagli
Per poter gestire questo tipo di aleatorietà, il piano di continuità va creato in modo che il suo scopo sia ampio, così da poter gestire un’ampia gamma di scenari di disastro. Di conseguenza non va fatta distinzione tra una perdita parziale o totale del servizio o del bene. “Lo scenario peggiore” è la base standard per l’elaborazione della procedura, di modo che situazioni meno critiche siano automaticamente contemplate, consultando solamente i passaggi pertinenti del documento.
Settimana prossima concluderemo questo primo avvicinamento alla Business Continuity, identificando i benefici procurati dall’adozione di tale standard o, in caso contrario, cosa possa accadere qualora un disastro colpisca un’organizzazione che ne sia completamente priva.
A presto sul nostro blog, ma anche sui nostri canali social, per la prosecuzione del nostro viaggio nel mondo della Business Continuity!